sabato 5 febbraio 2011
La Chambre Claire
Ciò che la fotografia riproduce all'infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente." (Roland Barthes, La camera chiara)
La Camera Chiara è il titolo dell'ultimo saggio del semiologo francese Roland Barthes ed è un piccolo grande libro sulla fotografia (1980).
Una fotografia non può essere trasformata filosoficamente, essa è interamente gravata dalla contingenza di cui è l'involucro trasparente e leggero.
Le foto che interessano Roland Barthes sono quelle davanti alle quali egli prova piacere o emozione. Non tiene conto delle regole di composizione d’un paesaggio.
Davanti a certe foto, si pone come un selvaggio, senza cultura. A partire dalle foto che ama, egli prova a formulare una filosofia. Non essendo fotografo, egli non ha a disposizione che due esperienze: quelle del soggetto visto e quelle del soggetto che vede.
Davanti all’obiettivo, egli è di volta in volta :- « colui che si crede,colui che vorrebbe che lo si creda, colui che il fotografo lo crede, colui del quale si serve per mostrare la propria arte ».
La fotografia stupisce Roland Barthes come se essa avesse il potere di far rivivere ciò che è stato. Essa non inventa (come può farlo ogni altro linguaggio), « essa è l’autenticazione stessa » « Ciò che si vede su carta è tanto sicuro come ciò che si tocca »
Il punctum di una fotografia è quella fatalità che di essa "mi punge", è quel punto particolare dell'immagine che scatena l'emozione e ciò che richiama la mia attenzione.
Dice Barthes: " Non appena ci sentiamo guardati dall'obbiettivo tutto cambia,ci mettiamo in atteggiamento di posa, fabbricandoci così un altro corpo, ci trasformiamo anticipatamente in immagine".
La Camera Chiara è il titolo dell'ultimo saggio del semiologo francese Roland Barthes ed è un piccolo grande libro sulla fotografia (1980).
Una fotografia non può essere trasformata filosoficamente, essa è interamente gravata dalla contingenza di cui è l'involucro trasparente e leggero.
Le foto che interessano Roland Barthes sono quelle davanti alle quali egli prova piacere o emozione. Non tiene conto delle regole di composizione d’un paesaggio.
Davanti a certe foto, si pone come un selvaggio, senza cultura. A partire dalle foto che ama, egli prova a formulare una filosofia. Non essendo fotografo, egli non ha a disposizione che due esperienze: quelle del soggetto visto e quelle del soggetto che vede.
Davanti all’obiettivo, egli è di volta in volta :- « colui che si crede,colui che vorrebbe che lo si creda, colui che il fotografo lo crede, colui del quale si serve per mostrare la propria arte ».
La fotografia stupisce Roland Barthes come se essa avesse il potere di far rivivere ciò che è stato. Essa non inventa (come può farlo ogni altro linguaggio), « essa è l’autenticazione stessa » « Ciò che si vede su carta è tanto sicuro come ciò che si tocca »
Il punctum di una fotografia è quella fatalità che di essa "mi punge", è quel punto particolare dell'immagine che scatena l'emozione e ciò che richiama la mia attenzione.
Dice Barthes: " Non appena ci sentiamo guardati dall'obbiettivo tutto cambia,ci mettiamo in atteggiamento di posa, fabbricandoci così un altro corpo, ci trasformiamo anticipatamente in immagine".
venerdì 4 febbraio 2011
decana del comizio
giovedì 3 febbraio 2011
l'importanza delle parole
ma perchè entriamo su facebook? cosa cerchiamo? cosa troviamo...
Siamo a casa da soli di fronte ad un monitor e ad una tastiera e comunichiamo con i nostri "amici virtuali".
Già, virtuali, perchè non li vediamo, non li sentiamo, non ci accorgiamo dei segni del tempo sui loro volti. L'avatar che ognuno di noi si costruisce è di solito quel che vorremo essere o che ci piacerebbe essere, ma quasi mai quello che si è davvero.
Le foto scelte sono quelle nelle quali ci troviamo più curati e anche più sorridenti, gli interessi che elenchiamo sono sempre degni di attenzione e gli album delle vacanze non lasciano intravedere mai i segni di arrabbiature o di ritardi di voli o di camere d'albergo con vista su qualche cavedio...
E' la versione patinata della nostra vita, il lato migliore, quello delle passeggiate a cavallo o delle cene tra amici che sembra si stiano divertendo da morire, o quello della spiaggia con la sabbia più bianca nell'ultimo viaggio di natale.
E non lo dico con polemica, non trovo ci sia niente di male in tutto questo, anche perchè in qualche modo mi ci ritrovo anch'io. E' solo un'analisi, una mia personale analisi di questo mezzo straordinario che è internet.
La rete ci permette di imparare e di comunicare. Forse superficialmente, ma di comunicare e di apprendere. Ogni giorno. Su molti argomenti. Credo che facendo una media, solo il 5% tra tutti gli amici virtuali sia in contatto con noi, il resto è un popolo di dormienti, di assenti o di coloro che leggono ma non partecipano.
Io con i miei cinque amici però riesco a scambiarmi molto di più di un link musicale o di una battuta sull'oroscopo. Alcune amiche che sono lontane è come se non lo fossero e riesco a non perderle, anzi, a volte, usando le parole scritte per raccontarci ci aiutiamo anche a far chiarezza su quanto si descrive.
Le mie fotografie, che mi divertono e mi appassionano, non sarebbero viste da nessuno, così come le conchiglie di Alfonso o le foto provocatorie di Carlo, i Link tecnologici di Alex o quelli esoterici di Margherita, le batture salaci di Danilo e le notizie d'arte di Monica. Le ballerine di Claudia e il teatro di Daniela, i cuori di Caterina e la musica di Wanda ( che è solo l'amica di una'amica e che mai incontrerò!), l'ironia di Antonello mio compagno di liceo.
So che questo mezzo ha azzerato le distanze, so che mia figlia è stata parecchi mesi in Australia ma io la vedevo e la sentivo ogni giorno e non mi sono accorta della lontananza anzi, ho avuto la percezione di dedicarle molto più tempo di quanto non facessi quando era a casa.
So che il mondo comunica in tempo reale tra un emisfero e l'altro, dall'Alaska al Polo Sud, mentre da noi è giorno e dall'altra parte è notte fonda, che le notizie viaggiano in simultanea con gli accadimenti e che poco o nulla non passa attraverso la rete.
So che le parole erano e resteranno il veicolo dei nostri pensieri e del nostro sentire.
Usiamole nel modo giusto.
Questa è una costante essenziale in un universo mutante.
So che le parole erano e resteranno il veicolo dei nostri pensieri e del nostro sentire.
Usiamole nel modo giusto.
Questa è una costante essenziale in un universo mutante.
Tocca a noi adesso, noi possiamo scegliere.
mercoledì 2 febbraio 2011
la mia amica MARGHERITA
Margherita Conventi 02 febbraio alle ore 8.29 Segnala che cara che sei,,, grazie,,, io trovo che sia una specie di miracolo l'amicizia , incontrarsi,,prendersi ,,e decidersi di tenersi così come si è ♥ la tua amica romantica.......Margherita
martedì 1 febbraio 2011
tanti scalini...
ma l'arrivo in piazza dei Corallini ci ripaga di qualsiasi sforzo,
la vista è bellissima!
L'azzurro del mare e alle nostre spalle l'imponenza della chiesa ci avvolgono e ci catturano
siamo a Cervo
e l'incanto di questo borgo medievale della Liguria non è comparabile a nessun altro luogo
lunedì 31 gennaio 2011
lo zighini con o senza pomodoro?
Lo zighinì è un grande classico dell’Etiopia e dell' Eritrea. E' uno spezzatino. Il berberè, ingrediente fondamentale per la preparazione dello zighinì, sta alla cucina nordafricana come il curry sta a quella indiana. Si tratta infatti di una miscela di spezie che con la parente indiana ha moltissimo in comune: coriandolo, zenzero, cumino. A differenza del curry, il berberè non ha tra i suoi componenti base il fieno greco, mentre vi spiccano i frutti dell’ajowan, una pianta mediorentale, che dà al berberè il suo caratteristico profumo. Lo zighinì si mangia generalmente insieme alla ‘njera, un pane africano piuttosto spugnoso, perfetto per questa preparazione perché si imbeve del sugo di cottura. La ‘njera preparata tradizionalmente richiede tre giorni di levitazione (quella qui proposta è una versione fast). Più precisamente lo zighinì va servito a mestolate sopra dei grandi dischi di ‘njera posti in un largo piatto al centro della tavola. Ogni commensale stacca con la mano un lembo di ‘njera e lo usa per afferrare un po’ di intingolo per poi portarlo alla bocca e mangiarlo. | ||
Clyfford Still e gli "irascibili"
Laureato in arte nel 1933, cominciò a viaggiare tra New York e la California.
Già dalla metà degli anni ’30 Still aveva già cominciato a dipingere opere che tendevano all’astrattismo; tuttavia, fu soltanto negli anni immediatamente successivi alla II guerra mondiale, dopo aver conosciuto Pollock e Rothko, che sviluppò pienamente il nuovo e potente stile che lo avrebbe reso famoso: l’espressionismo astratto.
Queste amicizie furono molto importanti per il suo sviluppo artistico: la sua pittura a grandi campi irregolari di colori densi, attraversati da lacerazioni della materia e accesi da intensi contrasti cromatici, accetta solo in parte lo stile dell’action painting di Pollock per avvicinarsi al color field painting di Rothko e di Newman.
Tuttavia, mentre Rothko e Newman organizzano i loro colori in un modo relativamente semplice (L'uno sotto forma di rettangoli nebulosi, l'altro in linee sottili su ampi campi di colore), le disposizioni di Still sono meno regolari, con lampi appuntiti di colore che danno l’impressione che uno strato di colore sia stato strappato dalla tela, rivelando i colori sottostanti.
Un altro punto di differenza è il modo in cui la vernice è posta sulla tela: mentre Rothko e Newman usano in modo discreto colori piani e vernice relativamente sottile, Still usa un impasto spesso.
I colori più usati sono il nero, il giallo, il bianco ed il rosso; questi quattro colori, e le loro variazioni, sono predominanti nel suo lavoro, con una tendenza ad usare le tonalità più scure.
Tuttavia, mentre Rothko e Newman organizzano i loro colori in un modo relativamente semplice (L'uno sotto forma di rettangoli nebulosi, l'altro in linee sottili su ampi campi di colore), le disposizioni di Still sono meno regolari, con lampi appuntiti di colore che danno l’impressione che uno strato di colore sia stato strappato dalla tela, rivelando i colori sottostanti.
Un altro punto di differenza è il modo in cui la vernice è posta sulla tela: mentre Rothko e Newman usano in modo discreto colori piani e vernice relativamente sottile, Still usa un impasto spesso.
I colori più usati sono il nero, il giallo, il bianco ed il rosso; questi quattro colori, e le loro variazioni, sono predominanti nel suo lavoro, con una tendenza ad usare le tonalità più scure.
L’Espressionismo Astratto asseriva la necessità dell’espressione artistica individuale attraverso l’atto puro del dipingere. Due gli approcci fondamentali: quello dei cosiddetti “Action painters”, il cui impegno era maggiormente centrato sul gesto e sul segno e quello dei “Color field painters” concentrati sul rapporto forma-colore. Ma i legami, anche personali tra i membri della Scuola di New York consentivano scambi continui e talvolta combinazioni e fusioni di approcci ed esiti; altro elemento comune era quello di non essere spesso compresi e sostenuti né dall’establishment né dal grande pubblico.
Nel maggio del 1950, ad esempio, il Metropolitan Museum of Art annunciò il progetto di una mostra sulla pittura contemporanea americana che non li includeva: allora diciotto di loro inviarono al direttore del Museo una lettera di protesta che, il giorno seguente, fu pubblicata dal New York Times. La cosa trovò spazio, ovviamente con diverse posizioni, sulla stampa e sui media, e presto la definizione di “Irascibili” coniata dall’Herald Tribune in senso negativo e ripresa dalla rivista Life, divenne un modo comune per definirli. Barnett Newmann, che aveva organizzato la protesta, commissionò a Nina Leen la celebre foto che li rappresenta “vestiti da banchieri”, con al centro Jackson Pollock. Questa vicenda rafforzò il senso di una condivisione di intenti e di interessi e gli Irascibili continuarono, nel loro spazio affittato al Greenwich Village, a riflettere e discutere, oltre a lavorare per diffondere il senso della loro ricerca sull’espressionismo astratto soprattutto presso i giovani artisti.
Clyfford Still-1957 D no.1 |
domenica 30 gennaio 2011
La Basilica di San Simpliciano
Il fascino dei mattoni rossi della facciata di San Simpliciano, una delle prime chiese edificate a Milano per volere di Sant'Ambrogio, è data dalla tonalità e dalla ruvidezza delle sfumature di rosso che cambia a seconda delle luce e del cielo. E' bella, molto bella e non mi stanco mai di guardarla e fotografarla. Mi piace viverci accanto. Forse perchè sono nata e cresciuta sotto un grande campanile di mattoni rossi? Ultima delle quattro Basiliche che il Santo volle costruite nelle zone periferiche della città per venire incontro alla massa crescente dei fedeli. Come per le altre, scelse una zona cimiteriale in zona frequentata dalle prostitute e per questo fu dedicata alle Vergini: Basilica Virginum (IV secolo). Fu terminata dal suo successore, San Simpliciano, che nel 401, alla sua morte chiese di esservi sepolto. Da allora prese il suo nome.
S. Simpliciano |
Alla sinistra dell'abside si trova il Sacello dei Martiri dell'Anaunia,che possiede un abside semicircolare ed è sormontato da una cupoletta, potrebbe risalire al Quarto secolo.
Il suo carattere paleocristiano è invece comprovato: è il monumento paleocristiano milanese meglio conservato, qualcuno addirittura dice di tutto il bacino del Mediterraneo. Prove incontrovertibili della trasformazione romanica, la maestosa facciata con il bellissimo portale di ingresso, e l'interno dipartito in tre navate di differente ampiezza.
Nell'Ottocento si verificò un intervento massiccio sulla struttura, che celò totalmente i segni dell'impianto paleocristiano contribuendo a far credere che la basilica fosse di origine romanica.
L'intervento di restauro fu dell'architetto Machiachini che elaborò un progetto di completamento della facciata con ampie integrazioni. Il restauro intervenne pesantemente sui portali minori e le finestre trifore e bifore furono ricostruite secondo criteri d’imitazione stilistica.
Gli architetti della seconda metà del sec. XIX non sfuggivano all’idea dell’integrazione stilistica e cercavano di ricostituire il monumento, compiuto e concluso nel suo originario stile. Tuttavia, nel periodo in cui operò Maciachini, la pratica precedente dell'interpretazione “stilistica” soggettiva era sostituita da una minuziosa ricerca dei documenti storici riguardanti l'edificio da restaurare.
Carlo Maciachini fu uno degli architetti dell'eclettismo milanese. Egli sostenne che il restauro è la conservazione di ciò che esiste e la riproduzione di ciò che è esistito; in restauro non si deve inventare nulla e quando le tracce dell'antico sono state perdute è più saggio copiare i motivi analoghi di un edificio dello stesso tempo per ottenere un risultato più “scientifico”, ovvero per inserire integrazioni simili il più possibile all'originale. Maciachini, nei restauri, a volte lasciava quanto trovava di più antiche opere, altre volte rifaceva ma sempre in base a quanto i documenti indicavano o di suo estro.
Maciachini restaurò molte chiese di Milano e d’altre città lombarde, sia tenendo conto delle tracce già esistenti e ritrovate, sia intervenendo con integrazioni e completamenti.
Smantellato dopo la guerra il rivestimento ottocentesco, si cominciò a restaurare S.Simpliciano con un criterio esclusivamente conservativo.
Carlo Maciachini fu uno degli architetti dell'eclettismo milanese. Egli sostenne che il restauro è la conservazione di ciò che esiste e la riproduzione di ciò che è esistito; in restauro non si deve inventare nulla e quando le tracce dell'antico sono state perdute è più saggio copiare i motivi analoghi di un edificio dello stesso tempo per ottenere un risultato più “scientifico”, ovvero per inserire integrazioni simili il più possibile all'originale. Maciachini, nei restauri, a volte lasciava quanto trovava di più antiche opere, altre volte rifaceva ma sempre in base a quanto i documenti indicavano o di suo estro.
Maciachini restaurò molte chiese di Milano e d’altre città lombarde, sia tenendo conto delle tracce già esistenti e ritrovate, sia intervenendo con integrazioni e completamenti.
Smantellato dopo la guerra il rivestimento ottocentesco, si cominciò a restaurare S.Simpliciano con un criterio esclusivamente conservativo.
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