Chi ha la testa riflette, chi non ce l'ha chiacchiera. (da Amori neri, Theoria, Roma, 1985)
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Oreste Del Buono, Alfonso Gatto e Vittorio Sereni nella redazione di "Milano Sera". |
Oreste del Buono
toscano dell'isola d'Elba, milanese d'adozione, è stato un grande intellettuale italiano, eclettico e dal carattere furioso e vivace ma di sicuro speciale, molto speciale.
Critico, giornalista, consulente editoriale, è stato anche un
grande traduttore di Gide, Flaubert, Wilde e Maupassant. Con la sua produzione letteraria esordì nel 1945 con "Racconto d'inverno" a cui seguirono "La parte difficile" (1947), "Facile da usare" (1962), "La terza persona" (1965), "I peggiori anni della nostra vita" (1971) "Amori miei" (1985), "La vita sola" (1989). Sono comunque solo questi alcuni titoli delle tante opere prodotte da Del Buono ultima delle quali, nel 1995, è stata "Amici, amici degli amici, maestri".
Dal 1971 al 1981 è direttore della rivista Linus attraverso la quale fece conoscere in Italia i fumetti dei Peanuts di Charles Schulz. Pare che andasse a letto alle otto di sera e s'alzasse alle due di notte, si mettesse al tavolo e lavorasse sino all'alba, per concedersi un breve pisolo prima di ricominciare.
«Il mio dormir poco sta diventando quasi un titolo accademico. L’altro giorno mi ha persino telefonato Piero Angela per invitarmi a una sua Serata Quark sull’insonnia. Mi sono sentito onorato, ma ormai non ho più l’età per andare in tv. Certe mattine, quando mi faccio la barba, mi spavento da solo. A ogni modo, non avrei avuto da dir troppo. Io non soffro d’insonnia, semplicemente, a un certo punto della mia vita, ho cominciato ad aver meno sonno e ne ho avuto sempre meno. Ma questo non ha costituito un dramma per me. Avevo avuto l’esempio dei miei genitori che sono morti in tarda età e non dormivano più. Quando io dormivo normalmente e li andavo a trovare all’Elba, in qualsiasi momento mi svegliassi la notte, erano lì in cucina a schiccherare caffè e parlare. Così non mi sono angosciato, e, invece di restare a letto a fingere con me stesso di dormire, o a compiangermi perché non mi riusciva di riprender sonno, ho cominciato a impiegare il mio tempo libero a far quel che mi piaceva di più. A passeggiare per la città che anni fa non era ancora tanto pericolosa la notte o a leggere i libri che nessuno mi imponeva di leggere, ma che mi andava di leggere. Tra questi, una grande scoperta: Le frontiere della notte di Murray Melbin, pubblicato nel 1988 dalle edizioni di Comunità. Il suo incipit mi è diventato più caro di quello della Recherche proustiana: “A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: ‘Mi addormento’. E, mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava...” (traduzione di Giovanni Raboni). Recitava, infatti, l’incipit de Le frontiere della notte: “Il tempo è un contenitore che stiamo riempiendo in modo nuovo, con periodi più lunghi di veglia nell’arco delle ventiquattr’ore...”